Nel buio degli slums.

Molti sono i luoghi di disperazione in Africa, molti i posti segnati dalla miseria. Kibera è uno di questi ed è uno di quei posti su questa terra dove la povertà segna uno dei suoi più tragici apici. Ad appena 7 km dal centro di Nairobi vivono circa 200mila persone con una densità abitativa per km quadrato fra le più alte del pianeta. Ammassi di lamiera che diventano abitazioni di pochi metri quadrati, ogni metro diventa spazio vitale dove si accatasta quel poco che si possiede: pochi abiti, pochi suppellettili, un giaciglio da condividere. La baraccopoli diventa il luogo nel quale le esistenze vengono annullate da povertà estrema, sporcizia, degrado e assenza di ogni forma di igiene. Case di fango e di lastre di metallo arrugginito fanno da sfondo al contesto di violenza e droga, che è la quotidianità. Kibera non è solo un luogo geografico, ma una comunità di persone che vivono in condizioni inimmaginabili. Negli slum mancano le condizioni ambientali e sanitarie minime per una vita accettabile.

L’accesso all’acqua e ai servizi igienici è assai complicato, al punto che ogni abitante lo condivide con altre centinaia di persone. Vivere in una baracca è condizione precaria, perché l’affitto che mediamente si aggira fra i 10 e i 15 euro al mese è una spesa non semplice da sostenere. Infatti, per mettersi in tasca qualche soldo, per la casa e per il cibo, ci si affida a piccole attività di riciclo di rifiuti o altri espedienti, che servono alla mera sopravvivenza. Gli slum nascono e si sviluppano al di fuori di ogni regola: non sono aree censite, non esiste strada che abbia un nome o un numero civico. Sono i luoghi di approdo di chi, andando via dalle campagne, cerca fortuna in città. La povertà rurale diventa povertà urbana. Per descrivere le condizioni di vita basta evidenziare un dato: un bambino su 4 muore prima del compimento del 5° anno di vita e i silenziosi killer di queste piccole vite sono malattie come polmonite, colera, tifo o dissenteria. L’aspettativa di vita media è  di 45/50 anni. Pochissime sono le persone che superano i 50. Ogni baraccopoli è circondata da un perimetro di immondizia e le discariche diventano i luoghi nei quali qualcuno cerca qualcosa da “riciclare”, qualcosa che possa produrre un reddito oppure che possa essere utile alla quotidianità di vita. Molte persone si danno da fare con sacchi e roncole per cercare qualcosa di utile: è un brulicare instancabile di persone che fanno dei rifiuti la propria fonte di speranza.

Spesso ci si imbatte in qualche rigagnolo di acqua putrida e accanto a questi qualcuno cerca, con una piccola zappa, di lavorare il terreno. Steli isolati di mais, qualche ortaggio e qualche pianta da frutto. La sensazione che si prova, passando fra le strade, è quella di una condizione di vita che non ha nulla di umano. Ci sono milioni di persone che non hanno mai conosciuto una condizione diversa nella propria esistenza, e difficilmente questo potrà cambiare. Quando un occidentale cammina fra di loro si sente gridare in lingua swahili: “muzungu, muzungu, howareyou?” (faccia bianca, faccia bianca come stai?)”. Questo non è un saluto, non è una frase accogliente di benvenuto, ma diventa il modo per rimarcare una rabbia interiore, una frustrazione esistenziale, un recriminare un diritto alla vita che, per molti di loro, è negato. Il senso di disagio e di impotenza mi pervade, ancora di più  perché sono abituato a ragionare in termini statistici di povertà: l’ho studiata sui libri, l’ho appresa in diverse lezioni di economia oppure in letture veloci di articoli. Ma quando essa ti si presenta davanti in tutta la sua drammaticità e complessità, ti rendi conto che ogni numero, ogni percentuale, non potrà mai rappresentare degnamente neanche una singola vita umana. Tutta questa sofferenza viene sovrastata da un corso di vita che sembra ordinario: teli stesi per terra con frutta e ortaggi, qualcuno porta a spasso la propria pecora, altri svolgono attività artigianali come sarti, elettricisti, ciabattini e parrucchieri.

Le strade brulicano di persone e il rumore è tanto: voci, versi di animali, musica ad alto volume che esce dalle radio. Tutto si mischia in maniera confusa e indistinta,  suoni e rumori, voci e grida, parole e versi. Nelle baraccopoli anche il tempo sembra avere una sua dimensione propria, scorre con un suo ritmo e una sua cadenza, non come la frenesia delle nostre città affannate di operosità. Il tempo va più lentamente, ogni gesto umano strappa, con la sua fragile efficienza, tempo all’alienazione. Difficile dire quanto conti realmente il tempo qui per noi che siamo abituati a cadenzare, con ritmi ciclici, il nostro lavoro, i nostri svaghi e i nostri impegni.

È difficile descrivere cosa sia realmente uno slum. Questa parola tratta dall’inglese che letteralmente significa “bassifondi”, il cui suono onomatopeico ricorda quello di una porta chiusa con violenza. E forse questa affinità di suono ha un suo perché: sembra che Nairobi, come ogni megalopoli nei Paesi in Via di Sviluppo, voglia chiudere la porta in faccia alle proprie contraddittorietà, cerca di costruire un argine alla propria incapacità di dare dignità a tutti. La povertà diventa fenomeno inevitabile, un danno collaterale allo sviluppo economico di un Paese, un prezzo inevitabile da pagare per chi, proprio da questa povertà, cerca di fuggire. Il tutto diventa scenario irreale e paradossale frutto di una complessità di vite condannate da una maledizione esistenziale, che difficilmente trova sbocchi e vie di salvezza.

Uscendo dagli slum e rientrando nelle caotiche strade della città, sembra proprio di varcare un confine. Questo luogo fatto di miseria e povertà confina con la città, ma allo stesso ne è incredibilmente lontano. Trovi stridente il distacco fra baraccopoli e metropoli: realtà così vicine geograficamente, ma così distanti per loro stessa natura.

Visitando Kibera e Mathare, le due grandi baraccopoli della capitale del Kenia, la sensazione che ho avuto è quella di un mondo che si deve dimenticare in fretta. Non puoi continuare a soffermarti su quello che i tuoi occhi hanno visto. Devi inesorabilmente chiudere, dentro di te, un capitolo e cercare velocemente di aprirne un altro, perché la sofferenza e il disagio sono insopportabili. Al tempo stesso, però,  diventano incancellabili ed entrano nella tua anima, non solo come sentimento umano di empatia. Si prova un gran senso di sdegno e di impotenza, in un mix che non potrà mai avere un suo equilibrio perché questo sdegno non potrà mai diventare strumento di soluzione, e l’impotenza, davanti al dramma umano, è sempre la dimensione ultima che prende il sopravvento.

Solo alzando gli occhi al cielo, chiedendo al Signore di volgere il suo sguardo di amore verso questi luoghi, è possibile sentire nel cuore una flebile parvenza di speranza e di ottimismo. Perché un giorno, chissà quanto lontano da oggi, milioni di persone possano smettere di vivere come animali e trovino la loro degna collocazione all’interno di questo strano mondo.

 

Pubblicato da Rino Sciaraffa

Dopo tanti anni di lavoro nel settore profit, in ambito amministrativo, ho scelto di portare le mie conoscenze e competenze al servizio del settore NON-PROFIT. Faccio il Project Manager di Campagne di sensibilizzazione sui temi della Campagna del Millennio e da un pò di tempo mi dedico al fundraising.

Lascia un commento